31 de maio de 2015

Dibattito preparatorio Convegno SLP Ravenna. UNO SGUARDO QUE DA SENSO, di Pamela Pace

La pratica clinica con i quadri di anoressia puberale interroga,  a partire dalla particolarità che presenta soprattutto nei primi incontri. Generalmente sono soggetti “portati” dalle madri e dai padri e “parlati” dai genitori, laddove è frequente che al corpo denutrito e rigidamente scheletrico si accompagni nelle ragazzine un mutismo, un rifiuto di dire. “Né mangia né parla” è la frase che si ripete nei lamenti materni. Lo sguardo fisso al tappeto, il mutismo che spiccava nel circuito di parole della madre mi convinse, nell’incontro con una piccola anoressica di  11  anni, della necessità di introdurre una logica interpretativa ribaltata.

Dall’essere portata e parlata dall’altro al possibile senso che l’organizzazione soggettiva muta e olofrastica della bambina comunque veicolava. Il corpo rigido, lo sguardo basso e il silenzio facevano pensare  ad  un “tappo di senso”. Accogliere il silenzio e ascoltare l’ingombro evidente di un corpo irrigidito, costituirono per me la chance di incontrare, viceversa, un “corpo parlante” e non un “corpo  parlato”. Rimasta sola la ragazzina prolungò il silenzio finché, alzandomi e accarezzandola,    le dissi che per me andava bene così. Lo sguardo, rimasto fino allora fisso sul tappeto, cercò il mio, ci  guardammo  in silenzio. La rividi per un anno e mezzo, tutte le settimane. 

Ho cioè voluto interpretare la scelta particolare di questa piccola paziente, di essere portata e parlata dalla madre, ribaltandola alla luce delle interessanti riflessioni dell’antropologia  zuttiana, considerando tale scelta come una perturbazione dell’ ”essere-portati-portando” (des tragenden Getragenseins)[1]. 

Nell’antropologia  zuttiana  l’ "essere in cammino nella vita"  coincide con l’essere nel mondo nella propria corporeità ( Leiblichkeit )  e, più precisamente, con un particolare modo di essere del corpo che  Zutt  definisce il “divenire involontario del corpo” (unwillkürliches   Werden) , cioè avere fame, avere sete, la pulsione sessuale. In tale nostro “essere corpo involontario” noi siamo portati nel fluire temporale, nel flusso vitale, nel senso che il nostro  Leib  (corpo vissuto) è cioè  "corpo portante" (tragende   Leib)  nel nostro divenire involontario a partire dalla sfera istintiva e dagli stati affettivi. Tuttavia l’espressione “siamo portati”  non deve far pensare  ad  un processo in terza persona, dato che siamo noi stessi questo “portare”  nel nostro divenire corporeo. Ciò significa che nei modi involontari dell’essere corpo ci scopriamo questo “essere-portati-portando”, rinveniamo cioè questa dimensione costitutiva.

Tale paradossale intreccio tra volontarietà ed involontarietà dell’esserci con la sua corporeità nel divenire esistenziale, è stata la prospettiva con cui ho letto la sofferenza della piccola paziente citata e il suo silenzio. Lo stenico rifiuto di quest’ultima ad accettare le naturali  ed  inevitabili trasformazioni puberali mostrava una sofferenza troppa a dirsi e rivelava una profonda impasse esistenziale. Il nucleo discorsivo congelato nel    corpo e nella postura, parlava della sua lotta rigida contro ogni espressione dell' "essere-presa", dominata da qualcosa che sfuggiva al suo controllo. I soggetti in anoressia puberale mostrano sovente di avere erroneamente interpretato il significato ontologico dell’ "essere-portati-portando", eludendo la struttura portante implicita, nell’assolutizzazione e quindi nel rifiuto della dimensione costituiva dell’esserci, del “venir portati”, relativa alle modificazioni e trasformazioni puberali.  Merleau-Ponty ha evidenziato che il  Leib  proprio  in quanto  ci “apre” al mondo, può chiudersi al mondo e agli altri, e in questo rifiuto la sfera della corporeità dà forma silenziosa, non più dialogica, al soggetto. [2]

Quando le trasformazioni puberali anticipano il tempo di maturazione psichica del giovane, possono produrre un arresto del movimento esistenziale che congela soggetti molto giovani, non ancora all’altezza del compito evolutivo cui il reale del corpo che cambia li convoca. Tale impasse lascia in sospeso il loro destino evolutivo, come capita nelle anoressie puberali. 

Dominare la fame e congelare il destino biologico del corpo, possono offrire l’occasione per ripristinare il proprio dominio sull’imprevedibilità puberale e scacciare il mistero angosciante che suscita il reale delle trasformazioni corporee. Tali soluzioni esprimono sovente lo “scarto” che la giovane prova dentro di sé tra le maturazioni fisiche, le  aspettative  del sociale e le proprie risorse psichiche. Tale “forbice” che si divarica troppo rispetto alle possibilità del soggetto di farvi fronte, può trovare nel sintomo alimentare una soluzione che “accorcia” tale divario vissuto come eccessivo.

L’incontro puberale con le trasformazioni corporee inaugura dunque    modificazioni del fluire esistenziale e innanzitutto comporta un attacco alla costituzione narcisistica dell’immagine corporea infantile.  Lo statuto immaginario del corpo descritto da Lacan nella teoria dello stadio dello specchio ci spinge a ricordarci, come riprende anche Domenico Cosenza nel suo intervento:  "che  l'effetto di unificazione gestaltica dell'immagine del corpo, quando si produce, non cancella tuttavia la 'discordia primordiale' che abita l'intimità del corpo stesso, e che si sottrae al campo della rappresentazione”.

Lacan evidenzia che un bambino può fare del suo sintomo somatico un evento di corpo, quindi un sintomo del  corpo parlante. Il corpo rigido e il silenzio di queste piccole anoressiche non  è  l’incontro di un corpo al di là della parola ma in attesa di qualcuno che possa ricevere, accogliere la parola senza indirizzo, quindi muta, dandole senso, come riverbero della loro impasse esistenziale.

Allora, sintomo come inscrizione nel corpo o come evento di  corpo ? E’ nel seminario  “Les  non- dupes   errent”[3]   che Lacan evidenzia che c’è evento solo per un dire.  Dunque evento come segno di un reale. Il corpo parlante permette oggi di orientarci nella clinica quotidiana. Fenomeni ed eventi di corpo impegnano lo psicoanalista nel poter rivelare la soluzione peculiare di un soggetto rispetto all’enigma del corpo e al suo saperci fare con il godimento. 

Notes:
[1] J.Zutt , über den tragenden Leib , in “J.B. Psycol ., Psychoter ”, 6,169,1958
[2] M.Merleau Ponty , Fenomenologia della percezione , trad. it .,Il Saggiatore, 1980
[3] J.Lacan , Les non dupes errent , lezione dicembre 1973-1974, inedito

30 de maio de 2015

LACAN QUOTIDIEN. Autisme. Lettre ouverte à Madame Ségolène Neuville




Secrétaire d'État chargée des Personnes handicapées et de la Lutte contre l'exclusion, auprès de la ministre des Affaires Sociales.

Madame la Secrétaire d’État,

L’Institut Psychanalytique de l’Enfant est un réseau scientifique qui fédère de nombreux praticiens - psychologues, psychiatres, psychanalystes, éducateurs, infirmiers, orthophonistes, psychomotriciens -, mais aussi des enseignants, et des institutions sanitaires et médico-sociales, accueillant entre autres des enfants et adolescents autistes. Actuel secrétaire de cet Institut, je recueille de nombreux témoignages qui font apparaître des changements importants et notables à propos de la réception de la question de l’autisme et à propos des solutions explorées depuis le lancement du 3e Plan Autisme en 2013. Il me semble qu’en 2015, ces changements esquissés mais effectifs sont de nature à apaiser les tensions apparues autour de cette question et, à l’occasion de la tenue du Conseil National Autisme que vous réunissez ce jeudi, je souhaitais vous faire part de ces constats.

Pour les personnes qui souffrent d’autisme, les choses ont changé. Des films, des documentaires, donnent la parole aux personnes autistes ou à ceux qui les accompagnent. Ils ont été diffusés dans de nombreux médias, témoignant de façon claire et documentée des souffrances endurées, des possibilités offertes ou espérées, du dévouement mobilisé, de l’écoute nécessaire. Des ouvrages de parents, de sujets autistes dits « de haut niveau », de professionnels engagés, sont parus, apportant un éclairage souvent très pertinent sur ce qui est désigné par le terme de « monde de l’autisme », à savoir la grande difficulté à entrer en contact avec autrui et les diverses défenses mises en œuvre par le sujet pour se protéger de toute demande trop directe.

Des structures d’accueil fondées sur des rééducations de type comportemental ont été créées. Je n’ai pas eu à connaître les résultats de ces actions privilégiées par le Plan Autisme, mais sont-ils d’un ordre différent que ceux depuis longtemps reconnus par les praticiens dans les structures de soin déjà existantes ? À savoir, un abaissement du seuil d’angoisse pour les sujets du fait même de trouver une place reconnue ; une amélioration rapide des symptômes ; puis l’installation d’une zone de défense qui quelquefois surprend les accueillants; une sensibilité nouvelle aux événements de vie; la nécessité d’un accompagnement au long court.

Néanmoins, vous le savez, il reste encore trop d’enfants, d’adolescents et d’adultes autistes qui ne trouvent pas de lieu d’accueil personnalisé et qui ne bénéficient pas de projets pédagogiques et thérapeutiques tenant compte de leurs singularités et de leurs affinités. Doit-on mettre en péril ce qui est actuellement en place et désigner comme mal formés les professionnels investis dans les structures existantes ?

Pour les parents d’enfants autistes, les choses ont changé. Ils peuvent faire entendre leurs voix, diverses, et faire valoir leurs difficultés et leurs attentes dans de nombreux médias et auprès de nombreuses instances, à commencer par le Comité National Autisme. Leurs associations sont écoutées et siègent dans ces mêmes instances. Elles exercent un lobbying actif et de longue haleine auprès des parlementaires, des décideurs d’entreprise et des grands médias nationaux. Leur action a été le fer de lance des changements actuels concernant la réception du « handicap » dans le grand public et semble introduire de grands changements dans les politiques de santé publique en psychiatrie de l’enfant. Cette reconfiguration en cours est venue incontestablement rencontrer d’autres intérêts: promotion des neurosciences comme porteuses de grands espoirs dans l’étiologie des grandes pathologies dites « mentales », désormais promues comme « dysfonctionnements cérébraux » ; promotion de réseaux de soins libéraux au détriment des structures publiques (CAMPS, CMP, PMI); promotion de centres experts au détriment des structures polyvalentes ; promotion du contrôle et de l’évaluation administrative au détriment de la conversation entre pairs.

Et pourtant, malgré l’amélioration reconnue dans la précocité du dépistage, dans le raccourcissement du délai de prise en charge, dans l’ouverture de l’offre de soin, l’annonce du diagnostic d’autisme reste un moment toujours douloureux pour les familles, toujours délicat pour le praticien qui s’en fait responsable, quels que soient les tests et méthodes d’aide au diagnostic utilisées.

Pour les professionnels en charge de personnes autistes, les choses ont changé. Jusqu’alors chacun exerçait avec ce qu’il estimait le meilleur de ses acquis de par sa formation, son expérience, ses échanges avec ses pairs, et avec l’appréciation de ses responsabilités envers les patients et leurs familles. Depuis déjà de nombreuses années, le travail en équipe pluridisciplinaire s’était également imposé à tous, réalisant un consensus concernant l’autisme, indispensable à la fois pour le diagnostic et pour la mise en place d’un projet personnalisé : structure de soin, inclusion scolaire, accompagnements, prises en charge spécialisées, conseils aux familles. Ces actions, pilotées – rappelons-le – par les plans de santé publique successifs, n’ont pas pu répondre à l’accroissement des besoins et n’ont pas été accompagnées de la création d’unités d’accueil spécifiques. De plus, comme évoqué précédemment, l’autisme lui-même s’est vu contesté dans son statut préalable de « maladie mentale ». Le paradigme médical et psychiatrique, quoique « aménagé » par une tradition humaniste de la psychiatrie de l’enfant en France, est apparu comme obsolète, voire comme scandaleux pour certaines familles et pour certains autistes eux-mêmes. Pourtant, de façon paradoxale, la notion de « handicap », revendiquée par ces mêmes familles ou associations, ne vaut en France que dans la reconnaissance de sa dépendance causale à une affection identifiée ou à un accident, ouvrant des droits à allocation et prise en charge des soins médicaux afférents à cette affection.

Néanmoins les professionnels ont pu tirer des conséquences de ces mises en cause, de ces mises en question, quelquefois vécues par eux comme injustes, car ayant été les premiers, pour certains, à sortir l’autisme et les personnes autistes du statut asilaire où ils avaient été longtemps cantonnés.

Ces conséquences sont les suivantes :

- l’autisme restant jusqu’à aujourd’hui, malgré certains effets d’annonce, un trouble singulier d’origine inconnue, affectant les grandes fonctions de relation, il génère de nombreuses hypothèses étiologiques et fonctionnelles dont aucune jusqu’alors n’a été validée ; 

- de ce fait, de nombreuses possibilités de prise en charge, d’accompagnement, d’accueil, de soins, sont désormais connues et proposées aux personnes autistes et à leurs familles ; le plus grand nombre respecte la singularité de la personne autistique, tient compte du niveau d’angoisse provoqué par la rencontre et la demande, adapte cette demande – éducative, pédagogique – à ce qui est supportable, utilise les méthodes mises à disposition, sans dénigrer d’autres méthodes. Ce niveau de tolérance respectueuse a certainement besoin d’être restauré, entre autre par l’action de la puissance publique.

- mais plus radicalement, les professionnels sont conduits à modifier leur regard sur l’autisme et la personne autiste, et à modifier leur mode de présence auprès d’eux : ils sont désormais appelés à être « accompagnateurs », «passeurs», « traducteurs », « facilitateurs » entre le sujet autiste avec sa logique rigoureuse, quelquefois implacable, et le monde commun partagé, fait de bruit et de fureur. Dans ce rôle, ils sont partenaires des familles et pourtant se doivent d’agir selon les principes qui gouvernent leur action – éducative, pédagogique, médicale, psychologique...

Les pouvoirs publics diront quelles sont les structures qui paraissent aujourd’hui les mieux adaptées à l’accueil et l’accompagnement des personnes autistes et de leurs familles. Ils peuvent choisir de les éloigner des prises en charge actuelles de la psychiatrie publique, et c’est actuellement, semble-t-il, la sensibilité qui domine. Ils peuvent solliciter massivement le milieu scolaire pour y faire une place nouvelle aux autistes, qui respecte leurs rythmes et leur tolérance au changement. Ils peuvent chercher à reconfigurer le secteur dit « médico-social » pour l’adapter aux nouvelles catégories de « handicaps » issus de la nouvelle nosographie psychiatrique américaine. Ce sont des choix politiques difficiles, qui ne sont pas sans conséquences, dont il faudra à chacun tenir compte.

Les pouvoirs publics peuvent également être tentés de promouvoir certaines méthodes plutôt que d’autres dans la prise en charge des personnes autistes. Ces «recommandations», que certains veulent ensuite faire valoir comme « obligations », produisent immanquablement des conflits entre partisans des unes et des autres, chacun ayant de bonnes raisons pour faire valoir celle qui a permis à son enfant de trouver un apaisement et à sortir de son enfermement. 

Pour notre part, depuis la place qui est la nôtre, ayant l’opportunité de recueillir les témoignages de nombreux parents, de nombreux professionnels, et d’accompagner de nombreux sujets autistes, nous ne saurions que « recommander » aux pouvoirs publics d’éviter de prendre ici parti, au risque de relancer des conflits qui fort heureusement s’apaisent, chacun se confrontant désormais à une certaine « longue durée » nécessaire à un accompagnement de qualité.

Madame la Secrétaire d’État, je me suis permis de vous faire part de ces appréciations partagées par mes collègues et par les familles des enfants et adolescents dont nous avons le souci, en espérant qu’elles trouveront auprès de vous l’attention que nous pensons qu’elles méritent. Restant à votre disposition, je vous prie de recevoir l’expression de mes salutations distinguées.

Pour l’Institut de l’Enfant, Docteur Daniel ROY, secrétaire
Le 16 avril 2015

29 de maio de 2015

Gil Caroz se entrevista con Khalil Sbeit. «UN COMBATE CON EL ANGEL DE LA DEBILIDAD HUMANA»


Khalil Sbeit es miembro de la NLS. Es psicoanalista en Haifa, Israel y palestino. En 1948, durante la guerra de independencia de Israel, la familia de su padre fue evacuada por la armada Israelí junto con el resto de los habitantes del pueblo de Ikrit en Galilea, cerca de la frontera libanesa. Estos habitantes se instalaron en Rameh, otro pueblo árabe en el interior del país. Se les prometió que recuperarían su tierra quince días después. 66 años más tarde, ese retorno prometido no ha tenido aún lugar, a pesar de la lucha jurídica y política muy mediática, de la que el padre de Khalil, poeta popular, ha sido uno de sus líderes. Mientras tanto, las casas han sido destruidas. Solamente la iglesia permanece aún en lo alto de la colina de ese pueblo árabe cristiano.

Gil Caroz: ¡Nuestro tema es “Víctima!”. ¡Tú debes ser un especialista!

Khalil Sbeit: (Risas). Eso, lo dices tú. Yo diría que es un problema del que tengo conocimiento. Lo conozco, en primer lugar a partir de un contexto político. Pero es cuestión de saber cómo esta idea de la víctima entra en resonancia con la vida privada. Yo hablo especialmente de los fracasos que he experimentado en la vida amorosa. La cuestion de saber cómo estos fracasos personales se anudan, a nivel general, con el síntoma político. Digamos así que el tema de la víctima me es conocido a partir de la tragedia familiar. Esta tragedia está ligada a la pérdida de bienes, de una casa, de una tierra. El acto real y cruel de explusión reduce al sujeto al estatuto de objeto. Una vez que esta desposesión ha tenido lugar, la cuestión es saber cómo uno se posiciona en la nueva realidad que emerge. Yo crecí como refugiado palestino. Una familia con pocos recursos financieros, en un contexto rural donde la jerarquización de las clases sociales era muy fuerte. Nosotros teníamos un estatuto inferior y al mismo tiempo, en tanto víctimas, fuimos idealizados. Hay un goce de mantener esta posición de tener una historia que suscita también una cierta estima.

Así, durante años, he estado identificado a esta historia, y hacía esfuerzos para rectificar lo que había pasado. Yo tenía una visión muy social de la reparación. Se trataba de reparar el mundo sujetándose a ideales sociales. Como si fuera una guerra entre la luz y las tinieblas, entre el bien y el mal.

Estos ideales no son completamente falsos, pero cubren algo, ocultan la responsabilidad subjetiva. No se trata de una responsabilidad respecto a acontecimientos: ¡Lo que ha tenido lugar, por supuesto, ha tenido lugar! Pero mi responsabilidad está en juego a nivel de las consecuencias de este acontecimiento histórico. En lo que me concierne, la posición de víctima que me ha sido impuesta por mi historia, ha funcionado como obstáculo a la construcción de una realidad nueva. Pero he realizado un camino, y lo digo también a la luz de mi recorrido analítico, que me ha liberado de ese peso. Por ejemplo, el simple acto de comprar una casa ha sido un paso dificil en mi vida, pues de una cierta manera volvía a ratificar la pérdida de la tierra y de la casa de mis ancestros. Fue necesario que una mujer entre en mi vida para decirme: « tú puedes permitirte comprar una casa».

G.C: Lo que tú dices me hace pensar en un pasaje de la entrevista que David Grossman ha realizado a tu padre y a ti y que ha sido publicada en 1992 en su libro “Presentes ausentes”. Tu padre dice allí: «después de la expulsión, he vivido siempre en viviendas de alquiler. No me he construido una casa, pues creo todavía que mis hijos retornarán a la tierra». Ya en esta entrevista tú dices que vives en Haifa y que no cuentas con volver a Ikrit, aún si te dejaran volver. Tú no has realizado pues el sueño del padre, y más aún, es una mujer la que te permite ir más allá de esta deuda. No es poca cosa. Pues al fin y al cabo, tu mujer, Rim, es palestina ella también. Ella podría haberse encerrado en la posición de víctima. Las mujeres como el psicoanálisis empujan a ir hacia el deseo.

Kh. S.: ¡Absolutamente! Yo tenía también cuestionamientos profesionales, sobre mi vocación. Dudé durante años sobre las vías de elección. Había pensado siempre que la solución al sufrimiento en el cual me encontraba no debía ser colectivo. Me preguntaba si no debía orientarme hacia lo social: devenir periodista, u hombre de política, con el fin de reparar las injusticias. Estuve involucrado en algunas actividades políticas y me he dado cuenta que las cosas no eran tan simples. Los ideales no reparan las injusticas. La experiencia humana oculta un goce del sujeto que no está incluido en los cálculos de los partidos políticos, ni en la estrategia y las tácticas de las luchas ideológicas. Yo he debido interesarme en mis propios síntomas y operar una «división de aguas». Para aclararlo, me permito comentar que, antes del análisis con una mujer, el trato a la mujer judía era para mí condición de amor, y los fracasos en ese dominio me hacían atribuir la ausencia de relación sexual a la novela familiar nacional en la cual yo había nacido. Era necesario separar, por una parte, el hecho de ser vícitima en una historia tan pesada y, por otra parte, los elementos subjetivos que sostenían esta posición.

C.: ¿Podemos decir que la víctima social y política está alojada en el yo y que era necesario separar el trauma del humano como tal, aquel que está ligado al encuentro del significante con el cuerpo?

Kh. S.: Sí, lo podemos decir así. Pero esto no me impide de tener una posición en relación a los acontecimientos históricos que condeno y que, según creo no tendrían que haber tenido lugar. Como tú lo dices, el sufrimiento, de todas formas, no falta al humano. ¿Qué podría agregar? Al mismo tiempo, pienso que la posición de víctima tiene un precio, el del despojo de la responsabilidad subjetiva con respecto a lo que nos ocurre. Bajo pretexto de estar en el lugar de objeto del goce del Otro, se pueden hacer muchas cosas. En mi caso, eso no me ha ocurrido, pero puedo comprender cómo uno puede devenir un monstruo a partir de este punto de partida. Mi padre me dijo un día: "el que ha estado tostado en el fuego de los nazis, deviene o bien un hombre pleno de compasión, o bien un monstruo". Él hablaba de los Israelíes, pero yo pienso que él hablaba de sí mismo.

C.: Jacques-Alain Miller, en «La ‘decencia común’ de la Oumma(1)», escribe: «los judíos han robado su tierra al pueblo palestino, y se trata que se la devuelvan». Si uno lee el texto en su integridad, hay que reconocer que éste no es un programa político. Hay más bien una indicación: para abordar lo real, se trata de deshacerse de la cara estúpida de las identificaciones que se aferran al goce. Esto se inscribe en lo que Jacques-Alain Miller llama el «combate con el Ángel de la debilidad humana».

Kh. S.: ¿Y quién es el Ángel de esta debilidad? Desde mi punto de vista, la posición de identificación a la víctima es una versión de este Ángel. El goce de la víctima, en los palestinos, no permite hacer con el trauma de manera de extraerse de él. Es decir, sin cesar: «los judíos han robado la tierra». ¿Y luego? La idea que se deba devolver toda la tierra no puede ser un programa político hoy en día.

Pero si los palestinos debieran comprender que es necesario atravesar la posición victimista, es necesario reconocer también que esta tierra les ha sido robada. Yo pienso que en el momento en que haya un reconocimiento de esta verdad, algo nuevo podrá ser posible en nuestra realidad, y podremos salirnos de esta repetición.

Nosotros, los palestinos, nos decimos «somos víctimas de las víctimas». Es el pasado. Pero hay también una responsabilidad concerniente al presente y al porvenir. Yo puedo llorar sin cesar la historia de mi familia. Puedo querer volver sobre el pasado y repararlo. Pero ese pasado es un real que es necesario soportar, y con el cual es necesario hacer algo hoy. Es así como yo veo las cosas.

Nota:
1-. Miller J.-A., La «Decencia común» de l’Oumma, Lacan Cotidiano, 474, 7 fébrero 2015.

28 de maio de 2015

LACAN QUOTIDIEN. Réponse a Rancière, par Jacques-Alain Miller


Cher Rancière,

Je viens de lire dans L’Obs les propos que tu as tenus à Éric Aeschimann, et je ne sais pas si nous vivons dans le même pays, que dis-je ? sur la même planète, quand je te vois dire en ouverture de cet entretien : « Tout le monde, bien sûr, est d’accord pour condamner les attentats de janvier ».

Contre-vérité si flagrante qu’elle décourage la polémique. Je ne dis rien. Tu as le champ libre pour expliquer à ta guise ce qu’il faut comprendre de cette phrase. Quel est donc ce « tout le monde, bien sûr » ? Tu nous le présenteras, je serai enchanté de faire sa connaissance, c’est un « tout le monde » de bonne compagnie, même s’il laisse bon nombre de personnes hors de lui. À y réfléchir, je crois que tu as voulu dire que tu n’étais pas du côté des assassins, et si tu l’as dit maladroitement, c’est que tu n’es pas davantage du côté de ceux qu’ils assassinent.

Ce « tout le monde » qui n’est pas tout le monde fait, si l’on y songe, le problème, de l’universel. Tu déplores que l’universalisme ait été « confisqué et manipulé », « transformé en signe distinctif d’un groupe ». Mais le ver est dans le fruit, je veux dire dans le concept même. Les universalistes ne sont pas si sots qu’ils ignorent qu’ils ne sont pas tout le monde. S’il y a des universalistes, c’est qu’il y a des particularistes, sans compter les singularités. Il s’ensuit que l’universalisme n’est jamais rien que le « signe distinctif d’un groupe ». Et les particularistes, de leur côté, sont fondés à tenir l’universalisme pour le particularisme des universalistes.

Ce n’est pas déraisonnable. Ceux qui pensent que «les grandes valeurs universalistes», comme tu les appelles, ne sont que les instruments new look de l’impérialisme occidental, sont légion. Ils sont la majorité à l’Assemblée générale des Nations Unies. Là-dessus, Poutine et ses philosophes slavophiles, les maîtres de la Chine, de l’Arabie saoudite, de l’Iran, le nouveau Califat islamique, sans oublier le défunt Lee Kuan Yew, inventeur de Singapour, et les frères Castro, tous sont d’accord.

Tu dis pareil concernant la France. C’est à savoir que les grands principes universalistes y sont désormais instrumentés par une volonté de domination qui s’emploie à tourmenter « une communauté précise ». Du coup, tu renies un universalisme qui ne véhicule plus que xénophobie et racisme. Là, je dis stop.

Distinguons le plan international et le plan national. Pour ce qui est du concert des nations, il n’est pas absurde de penser que mieux vaut admettre que l’universalisme est un particularisme, le nôtre, plutôt que de vouloir mordicus le faire universel. Car, dans ce cas, force est de rappeler d’entre les morts l’Universel botté, celui qu’incarna jadis, sous l’égidedes Droits de l’Homme, le fameux « mangeur d’hommes », l’Empereur des Français. Mais en France, au nom de quoi veux-tu maintenant obtenir des indigènes qu’ils soumettent leur particularisme, qui est universaliste, au particularisme de la « communauté précise » ?

Quand Aeschimann t’interroge sur le port du voile et l’émancipation féminine, tu lui réponds : « Le statut des femmes dans le monde musulman est sûrement problématique, mais c’est d’abord aux intéressées de dégager ce qui est pour elles oppressif. Et, en général, c’est aux gens qui subissent l’oppression de lutter contre la soumission. On ne libère pas les gens par substitution. »

Ta dernière phrase résume bien l’objection de Robespierre à Brisset, quand celui-ci appelait la France révolutionnaire à une « croisade de la liberté universelle » : « La plus extravagante idée qui puisse naître dans la tête d'un politique est de croire qu'il suffise à un peuple d'entrer à main armée chez un peuple étranger pour lui faire adopter ses lois et sa constitution. Personne n'aime les missionnaires armés ; et le premier conseil que donnent la nature et la prudence, c'est de les repousser comme des ennemis » (Discours au club des Jacobins, le 2 janvier 1792).

Mais l’argument ne répond pas à la question posée. Il ne s’agit pas de guerres étrangères. Aeschimann ne te parle pas de libérer les Afghanes ou les Saoudiennes, il te questionne sur l’émancipation des Françaises voilées. Se défausser sur les mœurs du « monde musulman » quand on t’interroge sur le sort de nos compatriotes, et renvoyer celles-ci à leur responsabilité, ça ne le fait pas. C’est noyer le poisson et jouer les Ponce-Pilate. Leur assujettissement éventuel n’est pas seulement leur affaire, ni même celle de la « communauté précise », il concerne la communauté nationale dans son ensemble.

Je ne te vois pas mieux inspiré quand tu estimes que la liberté d’expression n’était nullement en cause dans le massacre de la rédaction de Charlie, et qu’on ne s’est polarisé là- dessus que pour « disqualifier une partie de la population ». Tu vois dans la liberté d’expression « un principe qui régit les rapports entre les individus et l’État ».

Non, Rancière. Pourquoi la tuerie du 7 janvier a-t-elle suscité une émotion incomparable avec celle qu’avaient soulevée les attentats des gares madrilènes en 2004, avec leurs 200 morts et 1400 blessés ? C’est que soudain une volonté se rendait présente au cœur de Paris, qui annonçait à l’humanité dans son ensemble que, sous peine de mort, nulle part au monde certaines choses ne devaient être dites ni représentées. Cette exigence exorbitante du droit des gens témoignait du désir fou d’une soumission universelle. La tuerie a suscité les réactions les plus diverses : terreur, révolte, résistance, mais aussi compréhension, adhésion et admiration.

En fait, tout était déjà là en germe depuis le 14 février 1989, dans la fameuse fatwa de l’ayatollah Khomeini. Souviens-toi qu’elle invitait tous les musulmans, l’universel des croyants, à exécuter sans phrase Salman Rushdie, ses éditeurs, et toute personne ayant connaissance du livre des Versets sataniques. Le maître de l’Iran démontra ainsi qu’il pouvait ouvertement, impunément, condamner à mort pour délit de blasphème les ressortissants de plusieurs États étrangers vivant sur le sol de ceux-ci. Diras-tu que la liberté d’expression, là non plus, n’était pas en cause parce que la situation sortait du cadre de ta docte définition ?

Un curieux entrecroisement. Une jolie ruse. À mesure que l’Occident était forcé d’admettre de mauvais gré que son universalisme n’était qu’un particularisme, le particularisme musulman se révélait être un universalisme. L’Universel botté est de retour parmi nous. La tentative des néo-conservateurs américains ayant échoué, c’est au tour de l’Universel musulman de monter sur la scène de l’Histoire, et de jouer « l’âme du monde ».Lui aussi échouera. D’une part, il est divisé, dévoré de l’intérieur par le schisme qui dresse sunnites et chiites les uns contre les autres. D’autre part, les démocraties ont une résilience qu’à les voir dévirilisées, corrompues et chaotiques, les totalitarismes méconnaissent. Tu sembles pour ta part méconnaître la dimension transnationale des difficultés françaises.

Il y a un universalisme juif, puisque les sept lois noachiques valent pour chacun, mais c’est un universalisme sans prosélytisme, dont le noyau est le particularisme revendiqué du peuple élu. Il fut un temps où l’universalisme chrétien était jeune, tonique, et parfois sanguinaire : il se satisfait aujourd’hui des palabres de l’œcuménisme. L’universalisme communiste ne survit qu’à l’état de souvenir et d’espérance. Restent en concurrence l’universalisme capitaliste et l’universalisme musulman.

Le récent accord nucléaire avec l’Iran montre qu’Obama fait fond sur le soft power pour subvertir de l’intérieur l’austère République islamique. Sans doute espère-t-il que le jour où l’on fera la queue à Téhéran pour acquérir le dernier iPhone, Apple Akbar ! ne sera pas loin de se substituer à l’antique takbir. L’accueil enthousiaste réservé au même accord par les plus allumés des révolutionnaires iraniens montre qu’ils n’en croient rien. Lutte titanesque : qui l’emportera, du gadget ou de l’Un ? de l’objet ou du signifiant-maître ? En résultera-t-il un mariage de la production intensive et de l’identification nationaliste, à la chinoise ?

Le particularisme russe prétend jouer dans la cour des grands universalismes contemporains. Sa ressource est de faire revivre la théorie eschatologique de « Moscou troisième Rome ». On observe tous les jours comme il attire dans son orbite les extrêmes droites européennes. Son Internationale ira-t-elle beaucoup au-delà ?

Quant au particularisme français, il n’a plus les ambitions que Maurras avait inspirées à De Gaulle : celles de faire de la vieille nation le chef de file des petites et moyennes puissances résistant aux Empires. Elles se bornent à maintenir son « modèle », qui n’est plus modèle pour personne. Tes sarcasmes contre la laïcité à la française, et il n’en est pas d’autre, je les lis toutes les semaines dans le New York Times, dans The Economist, dans le Wall Street Journal, dans le Financial Times. Français, disent-ils tous, encore un effort si vous voulez être capitalistes: soyez multiculturels, liquidez votre Leitkultur (culture dominante), laissez passer librement les personnes et les biens, et puis, que chacun jouisse en paix de ses amours, de sa vêture, de sa nourriture.

Jolie ruse, là encore, qui voit les défenseurs, dont tu es, des plus exploités des exploités, travailler pour le roi de Prusse.
Tu fais du Parti socialiste le fossoyeur de la gauche. C’est méconnaître la part prise par le Parti communiste dans la mise au tombeau de l’Homme-de-Gauche. À la grande époque, sous Thorez, le PCF, moscoutaire jusqu’à l’os, réussissait à apparaître comme un parti national, voire nationaliste. Autre ruse : laissé à lui-même, loin de s’enraciner dans la nation, il en perdit le sens.

Toi-même ne veux voir dans l’attention portée au facteur national que « droitisation galopante ». Tu espères des « mouvements démocratiques de masse », sortis d’on ne sait zou. Des quarante dernières années, tu ne retiens que « désastres économiques » et « chaos géopolitique ». Et tu es l’un des penseurs les plus distingués de la gauche de la gauche.

La messe est dite. Les prolétaires sont au Front national. La gauche de la gauche se ratatine. La gauche glisse au centre. L’offre à droite, de Sarkozy à Juppé, est la plus ample. C’est la nouvelle donne.

Avec mon meilleur souvenir. JAM 

_________________________


La réponse de Jacques Rancière 

J’ai trouvé hier soir cette réponse de Jacques Rancière à ma lettre ouverte du 7 avril. Il me laisse libre de la considérer comme privée ou « comme réponse publique à (ma) lettre publique ». La voici donc. Je ferai mon profit de ses remarques et objections, dont je le remercie. — JAM, le 10 avril 2015

Cher Jacques-Alain Miller,


Tu te demandes si nous vivons dans le même pays. Je me demande, pour ma part, si nous parlons du même texte.

Tu te dis curieux de connaître le « tout le monde » dont je dis qu’il est d’accord pour condamner la boucherie du 7 janvier. Je pense que tu le fréquentes tous les jours. Ma phrase se référait au large consensus des opinions publiquement exprimées en France après l’attentat. Il y a, bien sûr, les voix rapportées, les récits sur ces jeunes collégiens qui trouvaient qu’ils l’avaient bien mérité. Mais justement ces voix étaient rapportées comme des voix d’un autre monde. Ma phrase se référait au consensus des voix dans le monde où j’étais convié à parler, qui est aussi celui où tu parles. Elle indiquait que je n’entendais pas me distinguer de ce consensus et que c’est d’autre chose que je parlerais. Parlons donc du fond des choses.

Tu m’accuses de renier l’universalisme sous prétexte qu’il ne véhiculerait plus aujourd’hui que xénophobie et racisme. Et tu m’assimiles généreusement à tous les dictateurs pour qui les « grandes valeurs universalistes » ne sont que les instruments new look de l’impérialisme occidental. Pour ma part je n’ai jamais cessé, depuis La Leçon d’Althusser, de m’opposer à ceux pour qui l’universalisme, les droits de l’homme, les libertés formelles, l’humanisme ou la démocratie n’étaient que le masque de l’exploitation ou de la domination. Je n’ai pas changé et ne changerai pas là-dessus. Et c’est bien pourquoi je m’inquiète de voir que depuis une ou deux décades s’est développé un discours « universaliste » qui semble fait exprès pour donner raison aux dictateurs en question et à tous ceux qui partagent leur avis. Bien sûr l’universalisme est toujours celui d’un groupe humain déterminé. Cela ne le soustrait pas à l’obligation d’être en accord avec ses propres principes. Quand l’universalisme est appliqué en sens unique, quand il se trouve assimilé à un système de règles et de contraintes – voire de brimades – qui ne peuvent concerner qu’une partie déterminée de la totalité qu’il est censé réguler, quand il est brandi avec arrogance comme marque de distinction entre un « nous » et un « eux », il ne peut que renforcer et radicaliser chez ceux qui se trouvent, de fait, visés le sentiment qu’il est un mensonge fait seulement pour les opprimer. Je défends donc l’universalisme contre ceux qui le ruinent par le fait.Je ne me défausse pas concernant les filles voilées en France. Ma proposition selon laquelle c’est aux intéressées de savoir ce qui est pour elles oppressif et qu’on ne libère pas les gens par substitution concerne d’abord la question du voile en France. Sur le premier point, nous avons jadis appris que ce qui nous paraissait le plus oppressif dans l’exploitation du travail n’était pas forcément ce dont les intéressés souffraient le plus fortement. Il en va de même dans le cas de la condition des filles et femmes musulmanes ici et nous savons qu’il y a chez elles une multiplicité de façons d’interpréter le port du voile – jusqu’à celui de la provocation. C’est pourquoi je crois que la « communauté nationale » a des choses plus importantes à traiter et que la manière dont l’affaire a été « nationalisée » a largement renforcé les crispations identitaires qu’elle prétendait combattre.

Concernant la liberté d’expression, je maintiens que sa définition stricte concerne le rapport entre l’État et ceux qui expriment leur opinion. Tu m’opposes la réaction contre une volonté annonçant « à l’humanité dans son ensemble que, sous peine de mort, nulle part au monde certaines choses ne devaient être dites ni représentées ». On peut discuter sur la portée universelle que les frères Kouachi donnaient à leur acte. Mais je maintiens que le problème posé par cette volonté ne peut pas être renfermé dans le cadre de la « liberté d’expression » ou de la « liberté de la presse ». Au lendemain du 7 janvier un certain Jacques- Alain Miller écrivait que « Nulle part, jamais, depuis qu’il y a des hommes, il n’a été licite de tout dire ». Par quoi, je pense, il n’entendait pas justifier le crime mais rappeler que la question de ce qui se dit et ne se dit pas ainsi que la question des effets d’une parole excédaient toute définition légale de la liberté d’expression. Il y a toujours eu, il y aura toujours des gens prêts à tuer pour une parole qui leur déplaît. Le problème est de savoir, comment, au sein d’une communauté déterminée, en l’occurrence la communauté française ou la communauté de ceux qui vivent en France, on fera en sorte que ceux-là ne se multiplient pas et que leurs actes ne suscitent pas l’admiration et l’adhésion d’une part plus large de la population. Et pour cela la simple affirmation qu’il y a un droit de tout dire qui est indissolublement lié à l’identité française est non seulement insuffisante mais contre- productive, parce qu’il est connu que le directeur de Charlie Hebdo avait lui-même décrété qu’on n’avait pas, sous peine d’être licencié, le droit de tout dire dans son journal. Il y faut un peu plus, la capacité d’avancer un peu dans la compréhension des raisons des uns et des autres, de voir ce sur quoi il peut et ne pas y avoir accord, ce sur quoi on peut ou ne peut pas transiger pour que ceux qui ont à vivre ensemble le fassent selon des modalités qui ne soient pas celles du meurtre ni celles du mépris. Il y a aussi la responsabilité de chacun quant à ce qu’il lui semble juste de dire ou de ne pas dire et quant à la façon dont sa parole est appelée à être entendue. Ceux qui hurlent au multiculturalisme dès qu’on évoque ces choses ne font certainement pas de bien.

Tu parles enfin de mes sarcasmes quant à la laïcité à la française et tu me mets là- dessus au diapason non des dictateurs post-communistes ou islamistes mais de la presse anglo-saxonne bien-pensante. Ce que j’ai dit sur la laïcité se résume en ceci : on a inventé depuis quelques années une « laïcité » qui n’a plus rien à voir avec celle qui a existé pendant plus d’un siècle en France. Cette dernière concernait l’Etat et ses institutions, à commencer par l’institution scolaire. Et le combat des militants de la laïcité était un combat pour que les fonds publics soient réservés à l’Ecole publique. On a récemment inventé une laïcité qui n’était plus une obligation de l’Etat mais une obligation des individus. On l’a inventée comme une obligation universelle qui se trouvait concerner un objet bien particulier – une pièce de vêtement transformée en message de propagande religieuse – et une catégorie bien déterminée, celle des jeunes filles de religion musulmane. Si tu veux critiquer ce que je dissur la laïcité, il faut prouver que cette transformation radicale de la notion n’a pas eu lieu ou qu’elle est un bien. Mais c’est ce que tu ne fais pas.

Pour le reste, tu m’objectes que le Parti socialiste n’est pas seul à avoir tué la gauche et que le Parti communiste y a sa part. Mon propos n’était pas de répartir les bons ou les mauvais points. C’est simplement un fait que le Parti Communiste, malgré tout ce qu’il a fait en quelques décennies, n’a jamais réussi à tuer la gauche et que le Parti socialiste a, lui, réussi à l’absorber et à la tuer. Par ailleurs, comme tu ne définis aucun espace politique dans lequel tu te situerais, il n’y a pas lieu de s’attarder sur les rêves d’avenir dont tu me juges la victime naïve.

Bien cordialement, Jacques Rancière

27 de maio de 2015

Víctimas de la precariedad, por Rosa Godínez



En el contexto social actual, derivado del nuevo orden simbólico, y con la presión del discurso del mercado de consumo, la gente corriente se busca la vida como puede. La otra gente también, salvo que tiene más y mejores oportunidades para buscarse la vida como quiere. Sin entrar en consideraciones sociológicas, me interesa subrayar el orden de la elección que, desde el psicoanálisis, es una condición esencial para que un sujeto que se nombra como víctima se sienta concernido a asumir la responsabilidad de responder, ante los hechos y ante sus dichos.

Como señala J. R. Ubieto, en nuestra clínica se trataría de apuntar a lo singular de la víctima más que a aquello que lo colectiviza1. Durante algunos años he atendido a niños, jóvenes y sus familias en uno de los territorios del mapa urbano de Barcelona más castigados por la precariedad económica y social que se ha recrudecido a medida que la crisis ha hecho mella en el interior de los hogares, de las escuelas e institutos, de los centros de atención primaria sociales y ambulatorios, en las comisarías, en sus plazas y calles…

Sus gentes, y los casos, me han enseñado muchas cosas, entre otras que existe el hecho de ser "víctimas de…" por ejemplo, del funcionamiento del sistema, pero también que los sujetos, uno a uno, pueden y quieren contestar, pedir, defenderse, quejarse, gritar contra ese sistema. En definitiva, muchos no se esconden de responder, aunque hace falta verificar desde dónde y hacia dónde para que sus respuestas singulares sean debidamente acogidas, desde cada lugar y función.

Algunos de las muchas personas africanas que allí viven, entre otras culturas supervivientes, han pasado por la institución de salud mental, desde donde les atendí, para ser escuchados. Una madre de Nigeria me decía que aunque allí no se le daba nada, en cuanto a objetos materiales, se encontraba mejor. Ser escuchada y obtener una respuesta que apunta a la ética de la responsabilidad provocaba la dignificación de la cosa. Se hacía sentir esa dignidad que tanto cuesta obtener cuando el medio se empobrece, se deteriora y hasta las relaciones humanas entran en el centrifugado de la precariedad.

El hijo, un niño de 9 años llegó con cinco, triste, huidizo y asustadizo. Apenas yo entendía su lalengua, mezcla de inglés, castellano y catalán, aderezada con sus dificultades de lenguaje, le tendí la mano para enseñarle el camino hacia la consulta, y él me dio su manita de piel áspera y rasposa. La apuesta fue la de escuchar lo que él me quería decir, aunque fuese ininteligible. Con el tiempo, inventó un juego significante, esto es, cuando le  saludaba y le preguntaba: "Gabriel, ¿cómo estás?", el niño me decía: "Fatal" y al ver mi cara seria y mi siguiente pregunta: "Y cuéntame, ¿qué te ocurre?" Él gozoso, con una gran sonrisa respondía: "¡Es broma, te lo has creído!". Entre broma y broma, me fue contando que los padres, que lo pasan mal por la escasez de recursos económicos y con la guillotina al cuello bajo la amenaza del desahucio, le pegan porque él se porta mal.  Añadía: "…pero no se lo cuentes porque entonces se enfadarán y me castigarán más". 

Un día advertí que estábamos conversando y que me contaba que había escrito y había leído en el cole, y exclamé "Gabriel, hablas y te expresas muy bien, y además has aprendido a leer y escribir". Estoy muy contenta. Esto nos sirvió también para que la madre y el padre entendieran que el hijo sufre de la situación en la que viven, pero no tanto por la escasez de medios y de objetos, sino por la respuesta de los padres atrapados en su condición de "víctimas de la pobreza". El hijo también tiene sus propias dificultades, por las que lo pasa "fatal". Se entiende que ellos estén angustiados y crispados ante los problemas reales de falta de trabajo y de oportunidades, pero el hijo no tiene por qué cargar con sus decepciones e irritaciones. Hacia el final del proceso terapéutico, la madre me expresó su alegría de ver al hijo sano y guapo y que esté aprendiendo mucho en el cole. El padre me confesó que él de niño no tuvo tanta fortuna, pues sus padres le pegaban fuerte con el palo, según refiere es una costumbre educativa en su cultura, y además soñó con ser un buen deportista y se inició en el fútbol y atletismo. "¿Y por qué lo dejó?": "Porque no tuve a nadie que me diera apoyo y me animara"-dijo él. Hoy, su hijo, me cuenta su pasión por el fútbol. Nos despedimos cuando el niño, ya encarrilado en un deseo singular, me dice que si de mayor consigue ser futbolista, le veré por la TV y me pregunta si estaré contenta: "Estaré, como lo estoy ahora, contenta y orgullosa de ti".

El deseo que no hay, o se muestra accidentado, marca una modalidad de satisfacción en cada sujeto, el goce, que produce una experiencia singular de su "ser víctima", significante, por otra parte, central de esta sociedad evaluadora y sancionadora. E. Laurent, indica que para Lacan "el niño es el objeto a, liberado, producido"2. Cuando se trata de niños o jóvenes dependientes de sus familias, en situaciones de precariedad real, y más allá, nos debemos de preguntar qué es lo que pone freno al goce si el padre como instrumento, padre residuo, no permite mantener juntos lo simbólico, lo real y lo imaginario. En ocasiones, el lugar que un psicoanalista puede ofrecer puede paliar el impacto de la crudeza de la emergencia de lo real, cuando lo simbólico y lo imaginario no alcanzan a dar un marco de sostén. Como señala J.-D. Matet, "las soluciones elaboradas por quienes sufrieron un perjuicio grave son variables, en la medida de las soluciones singulares que cada cual puede elaborar para hacer frente a los efectos de la repetición que constituyeron su historia"3.

Notas:
1- J.R.Ubieto, "Lo singular de la víctima".

2- E. Laurent, El goce sin rostro, Tres Haches, 2010, Argentina, pp.151-153.

3- Jean-Daniel Matet, "¡Víctima!", ¿Cómo escapar?


26 de maio de 2015

A Segunda Entrada em análise: Consentir com o Inconsciente, por Celso Rennó Lima



Um sujeito procura análise porque o saber constituído de seu sintoma claudica. Este é o momento em que o sintoma se apresenta como impossível a assumir, porque o rompimento de seu envelope formal coloca a céu aberto o que escapa à representação, à ação do pensamento (gedanken) e que permanece como um resto que Freud, no seu “Projeto ...” denomina de “a coisa” (das Ding). Em consequência, a angústia surge como sinal.

Buscar um analista torna-se, então, uma das saídas possíveis. Busca-se, no analista, um saber que possa restituir a eficácia do envelope rompido, na esperança que seja devolvido, ao sujeito, a sua certeza de ser na singularidade própria de seu sintoma. É Albert Camus, numa passagem que só os escritores criativos produzem, quem diz muito bem do que se trata: “Ele não era nada senão esse coração angustiado, ávido de viver, revoltado contra a ordem mortal do mundo que o tinha acompanhado durante quarenta anos, esse coração que batia sempre com a mesma força contra o muro que o separava de toda e qualquer vida, querendo ir mais longe, ir além e sobretudo saber*, saber antes de morrer, saber finalmente para ser*, uma só vez, um só segundo, mas para sempre.”

É, portanto, pela via do saber que começa uma análise e neste começo está a transferência: o amor ao saber.

Responder deste lugar de saber, no entanto, poderá produzir alguns efeitos, mas nunca uma análise. Por isso é importante distinguirmos, com Gerard Miller, “a entrada em análise de seu começo (...) se quisermos dar conta desses alongamentos que se estiram sob o nome de uma análise, sem jamais iniciarem”.

Para que uma análise possa acontecer é fundamental a intervenção de um analista.

Novamente uma distinção se faz necessária. Quando Lacan, em sua conferência intitulada “A terceira” nos diz que “chama sintoma ao que vem do real”, ele explicita que este, o sintoma, só se acalma se lhe nutrem de sentido, de tal maneira que só há duas saídas: ou o sintoma prolifera ou se reinventa. Ora, proliferar o sintoma não é bem o objetivo de uma análise, nem muito menos é seu objetivo extinguí-lo. O fundamental é que não nos esqueçamos de que na base do sintoma está uma impossibilidade que, sendo de estrutura, se define por: “não há relação sexual”. É a partir mesmo desta impossibilidade que o sentido insiste no ‘automaton’ da cadeia significante.

Não nutrir o sintoma para que este prolifere, ou como usualmente escutamos: não responder às demandas do analisante propiciando a ele a oportunidade de escutar por detrás dos ditos, é função do analista. Uma interpretação não é, pois, aberta a todos os sentidos mas ao real que constitui o núcleo do sintoma e aí se coloca como um x impedindo que as coisas andem. Ao visar este núcleo, este para-além da significação, a interpretação ou o dizer silencioso do analista - e aqui me refiro ao silêncio da falta de palavras [S(A/)] - é que vai promover uma volta a mais a partir mesmo do um-a-menos de sua resposta.

Esta volta a mais só será possível se o analista não ceder de seu desejo, permitindo que os efeitos do reinado do objeto ‘a’, enquanto semblante, levem o sujeito à experiência de desamparo (Hilflösigkeit), condição primordial ao surgimento do desejo. É o que se pode mostrar ao desenhar sobre a topologia do Grafo do Desejo, um Oito Interior.

Esta volta a mais pode-se dizê-la correlativa de um tempo para compreender na medida que, frente à frente com a demanda do Outro, e não mais submetido a um “querer” do analista, o analisante poderá dizer, como o fez outro dia uma cliente: “Saí daqui preocupada com a última sessão. Parece que eu estava sempre querendo falar coisas que lhe interessassem.” Este é um sinal claro da presença de uma transferência e, mais ainda, de um certo saber que aponta para um mais-além da demanda, dizendo que uma análise poderá acontecer.

No entanto, muitas vezes este percurso é paralisado, é interrompido, ou pode até ir um pouco além deste ponto, quando o saber que o sujeito adquiriu durante este tempo de compreender apresenta-se como suficiente. Para manter-se não sabendo o analisante faz a opção pelo luto do analista para, assim, poder sustentar seus ideais e a crença num Outro. Esta é a esperança de poder evitar saber da “perda forçada” que a entrada na linguagem impõe ao sujeito.

Podemos denominar este momento de uma saída terapêutica aí, onde uma análise didática poderia ter começado.

Em sua “Nota aos Italianos” Lacan já dizia desta possibilidade ao afirmar que a humanidade não deseja saber e que “não há analista, senão quando um desejo lhe vem”.

Quando, ao contrário, um passo a mais pode ser dado, o que temos é uma “segunda entrada em análise”. Este termo, introduzido por Gerard Miller é relembrado por J. A. Miller em seu artigo sobre “As saídas de Análise”: “poderíamos nos perguntar se não há sempre, em certo sentido, uma segunda entrada em análise. O sujeito entra em análise antes de efetivamente saber o que é uma análise; por isso é necessário que o analista intervenha para confirmar sua opção”.

A confirmação desta opção, acredito, não se faz pela via do saber, mas sim por um consentimento com a experiência do inconsciente. Quando menão se faz pela via do saber, mas sim por um refiro a consentimento, tenho em mente o que Lacan nos diz em seu Seminário VII - A Ética da Psicanálise: quando, uma vez cumprido o ato do assassinato do pai da horda primitiva, “se instaura um consentimento inaugural que é um tempo essencial na instituição da lei, quanto à qual a arte de Freud será vinculá-la ao assassinato do pai, de identifica-la à ambivalência que então funda as relações do filho com o pai, isto é, ao retorno do amor após efetuado o ato.”

Destaco o “retorno do amor” para dizer que aqui também, nesta passagem, o amor de transferência se enlaça neste ponto onde o sujeito vê, para além do narcisismo, o Outro como a própria presença da morte, espreitando. É o momento em que, já não mais podendo ter a garantia da sobrevivência deste Outro de suas virtudes, o sujeito encontra no amor o signo que vai sustentar o giro de quarto de volta do discurso. Uma segunda entrada em análise poderá acontecer.

Esta é uma passagem que podemos definir como sendo de um saber sobre o inconsciente para, consentir com a experiência do inconsciente.


From: http://clinicalacaniana.blogspot.com.br/

24 de maio de 2015

Crónica: Guy Briole “El trauma: momento de crisis por excelencia”, por José Manuel Alvarez


Ante un muy nutrido número de asistentes, tuvo lugar la conferencia de Guy Briole en la Sede de Barcelona de la ELP titulada El trauma: momento de crisis por excelencia.

Después de la presentación del acto a cargo de nuestro colega Ricard Arranz –director  de la revista Freudiana-, encuadrando el interés para la comunidad analítica de la actualidad del tema del trauma y de la crisis, Eugenio Díaz aprovechó la ocasión para realizar la presentación de las próximas XIV jornadas de la ELP que tendrán lugar los días 12 y 13 de Diciembre de 2015, en Barcelona, bajo el título: Crisis ¿Qué dice el psicoanálisis? (https://elp.org.es/2015/04/actualidad/) 

Guy Briole comenzó señalando que, si bien la crisis no es en sí mismo un concepto psicoanalítico, no obstante es un tema serio para el psicoanálisis. Desde el psicoanálisis consideramos la crisis como una crisis de lo simbólico y en consecuencia la manifestación de lo real desordenado, sin ley. En este sentido, además, existe una proximidad entre crisis y trauma.

El contexto social está en crisis. Está afectado por muchas crisis y lo que comúnmente se denomina caída de la imago paterna, no da cuenta completamente de lo que es un parletré en crisis en este siglo XXI. Si antaño la crisis se podía considerar como la incidencia en el sujeto del retorno de lo reprimido, en la actualidad se manifiesta incidiendo sobre las modalidades de los ajustes del sujeto con su goce: dado que la promesa de la Civilización es la felicidad para todos, el sujeto se ve en crisis cuando no logra ajustar su goce a esa promesa que se le presenta como inaccesible.

Nos encontramos entonces con un sujeto muy proclive a desplazar sobre los otros lo que en él se oculta en términos de castración, y quiere conseguir del analista más la clave que le permitiría reajustar su goce mediante un saber hacer, que conectarlo al sujeto-supuesto-saber, demandando así un bricolage rápido para acabar con el malestar. El sujeto traumatizado se piensa -identificando la causa en el exterior-, más como víctima que como responsable. 

Crisis y responsabilidad 

Con la desvalorización actual del lazo social y el desprestigio de los valores sociales, se acentúa un desplazamiento del origen de las desdichas del sujeto al campo del Otro.

Sin embargo, señaló Briole, hay que recordar que la crisis como tal ha sido el punto de partida del propio Freud: Mientras que Charcot se detuvo en el culmen de la crisis (histeria), Freud la tomó como su propio punto de partida en una operación mediante la cual instaura un interlocutor posible para la crisis; y esto es lo que es el psicoanálisis: una operación por medio de la cual se extrae el parletré al cuerpo a través del cual se manifiesta la crisis. Esta sería la deuda con la crisis que tiene el psicoanálisis.

Podemos considerar la crisis como un hundimiento de lo simbólico, un emergencia de lo real sin ley y una fisura de lo imaginario, es decir, el sujeto ya no puede sostenerse en el espejo de la época.

En este punto, Guy Briole alertó de los peligros de dejarse llevar por la figura del especialista en crisis, y más todavía de un psicoanalista especialista en crisis, ya que “especialista” es un espejismo, una trampa de la que resultará una crisis del propio acto del llamado “especialista” al no poder orientarse en la dirección de la cura.

Crisis y trauma 

Apoyándose en un texto de François Ansermet(1) introdujo la relación del tiempo con la crisis. Mientras que el traumatismo petrifica el tiempo, la crisis es una ruptura con un estado anterior, poniendo en relación el acontecimiento con la contingencia como efecto de un encuentro.

Así, un acontecimiento se produce en una fecha y en lugar determinado; no es neutro y se distingue claramente del curso uniforme de la naturaleza. El acontecimiento es inesperado, es una sorpresa, introduce una discontinuidad temporal que compromete a un sujeto. El hecho, por su parte, es lo que realmente sucedió, no es una experiencia. La ciencia puede dar buena cuenta de él en todos sus parámetros, pero justamente la ciencia está hecha para eliminar el factor sorpresa; es un invento para evitar la sorpresa en tanto formula teorías por medio de las cuales se pueden predecir hechos futuros.

Lo que lo hace traumático al acontecimiento, es que pone en juego lo singular de un sujeto en un momento dado de su historia en la intersección de la diacronía de los acontecimientos y lo que surge en la sincronía de lo que ha ocurrido. De esta forma, señaló Guy, la contingencia da cuenta de la noción misma de crisis.

En este sentido, el accidente (como azar desgraciado, decía Aristóteles) es único en el sentido de que no impide que se sucedan otros, pero lo es, único, en función de un sujeto y, por lo tanto, no es igual para el resto de los sujetos concernidos en el mismo accidente.

Para el sujeto hay una parte real marcada por el accidente en tanto indecible y, por otra, hay una parte subjetiva en la que el mismo sujeto está comprometido. 

Marca del sujeto, fantasma, defracción, crisis 

No es el impacto del acontecimiento lo que hace traumatismo sino lo específico del mismo para un sujeto concernido... Aquí no se dejó de señalar que para Freud mismo, el trauma es constitutivo del sujeto y que siempre está estructurado como aprèp-coup. A lo que, añade Freud, el trauma siempre es sexual, siempre despierta, activa una rasgo anterior -repetición traumática- constituyéndose una continuidad entre el momento del trauma y el momento de crisis. 

Crisis, trauma y cuestiones al psicoanálisis 

Para el sujeto traumatizado siempre permanece la cuestión de saber dónde puede inscribir este mal encuentro que ha modificado el curso de su vida, bajo la pregunta ¿quién quiere escucharlo? Aquí, se abren múltiples vías y no todas se sostienen de la misma ética, ya que aquel que va escuchar al sujeto, de su escucha y de su acto dependerá el devenir del que se dirige a él. La clave se encuentra en que el analista se pueda sostener en la ética del bien decir. 

Acto y crisis 

La diferencia entre los distintos dispositivos que pueden acoger una crisis del sujeto, -médicos, psiquiatras, asistentes sociales, policías, jueces-, y el psicoanalista, es que este ofrece una escucha distinta en la que se trata de transponer la crisis al marco del análisis, localizando la dimensión de la crisis y de su urgencia subjetiva de modo que los acting-out puedan hablarse y no hacer ruptura mediante un pasaje al acto. Esto es un paso decisivo, ya que en la operación analítica se trata de anudar la crisis al campo del Otro.

El desorden que se escucha no implica que el analista pueda cambiar algo de eso. El analista sólo está ahí, incluso designado por su impotencia. El analista no cuenta con una solución a la crisis y la utilización por su parte de una sugestión tranquilizadora, es decir, de una seducción que desplaza la transferencia sobre el que promete un porvenir sin crisis, es un callejón sin salida.

Si el dispositivo analítico funciona es porque, como señala Lacan, el poder de la sugestión es sustraído a la posición del analista.

De esta forma, el analista busca el punto en el que el sujeto pueda responder de ese desorden que lo invade, y el cual lo ha hecho desaparecer como sujeto. Lo importante no es tranquilizar, ni prometer, ni recurrir a la confianza, sino apuntar a lo que se puede movilizar a partir de lo que puede sostenerse en él. Se apunta, por tanto, no a la coacción de lo que se dice en lo que quedó de inarticulado del acontecimiento, sino a extraer una palabra que pueda ser retomada en el lazo transferencial. 

Tiempo y sesión analítica 

Guy Briole expuso dos ángulos. Un ángulo en el que el tiempo define no tanto una temporalidad sino un espacio donde se despliega la gama subjetiva; un espacio en el cual se transponen los elementos de la crisis al espacio de las sesiones; donde se puedan anudar, al espacio de las sesiones, los momentos diferentes de los efectos producidos por el acto del analista.

El tiempo de la sesión es otro ángulo de la temporalidad. La sesión estándar sitúa el corte temporal por fuera de la sesión misma; en ese punto, el acto no incumbe al analista. Mientras que la propuesta de Lacan, incluyendo el corte de la sesión del lado del acto del analista, transforma la rotura que ha producido la crisis en las discontinuidades propias a la cadena significante.

Precisamente, esto requiere un despliegue temporal que podemos relacionar con el desarrollo de las entrevistas preliminares, en las cuales se puedan construir las condiciones del trabajo analítico mediante una rectificación subjetiva que apunta a cambiar las relaciones del sujeto con la realidad, es decir, hacerse agente de su propio discurso. Y esto, en situaciones de trauma o de crisis puede llevar mucho tiempo. 

Traumatismo, crisis y uno por uno 

Guy Briole señaló algunos errores frecuentes que pueden llevar a un diagnóstico de psicosis, por ejemplo, a partir de una presentación del sujeto en la que, en efecto, suele haber falta de palabras para describir lo vivido, y la presencia de un real que acecha, junto con el hecho de que suelen ser sujetos que ya han realizado frecuentemente un largo recorrido por diversos dispositivos de atención médico o social, suele acabarles proporcionando el sentimiento de que, una vez más, no van a ser ni escuchados ni comprendidos; lo que genera una gran desconfianza que puede hacer aflorar un sentimiento vagamente persecutorio. Y eso se puede acentuar aún más si nos situamos como los que lo vamos a interrogar con más precisión de lo que ya lo han hecho otros. Para un sujeto en crisis, la mera evocación de lo que desencadenó su crisis genera de nuevo revivirla, lo cual puede producir a su vez un rechazo, un cuestionamiento personal precipitando una negativa a hablar que puede conducir a un acting-out como única vía de escape.

Hay, entonces, una política de la dirección de la cura que pasa por orientar al sujeto a situarse al margen de la zona de crisis. Y esto es más importante y decisivo para el sujeto traumatizado que para el sujeto en crisis. Conviene, subrayó, que el recuerdo traumático sea respetado, ya que nada permite al sujeto abordar dicha emergencia: el encuentro con la muerte ha dejado su huella y, paradójicamente, el sujeto a veces piensa en matarse para escapar de la repetición de dicha huella.

Por lo tanto, hay que estar muy atentos, dar muestras de firmeza y gran paciencia para posibilitar una elaboración de las condiciones exactas del acontecimiento, teniendo en cuenta el sufrimiento y dirigiendo al paciente a un recorrido en su historia personal que le ayude a situar el traumatismo en el curso de su vida desde el cual podrá realizar un anudamiento.

Debate. 

A continuación tuvo lugar un amplio y animado debate, del cual resaltaremos tres puntos subrayados por Guy Briole.

La crisis como oportunidad es una idea que proviene del mundo empresarial y de los medios de producción. El interés que tiene la crisis para un sujeto es, más bien, tomarla como lo que está en juego en su etimología misma: juicio y decisión.

Se suelen remarcar más los acontecimientos desgraciados como los que suelen provocar crisis, y se suele olvidar que muchos acontecimientos felices también desencadenan crisis.

Quizás el mundo de hoy sea el mundo de la prisa, pero también el psicoanalista resulta que muchas veces tiene prisa, y se olvida de su propio trayecto analítico marcado por una temporalidad más bien bastante larga. Y, olvidándose de eso, quieren obtener resultados en un breve espacio de tiempo, cuando justamente, si hay que respetar la zona de crisis de un sujeto, hay que invertir la ecuación y darse el tiempo necesario para que el sujeto, lejos de encontrar una solución inmediata, una salida, pueda encontrar, al contrario, una entrada al análisis.


Notas

[1] Ansermet F., La crise, entre l'entaille et le temps. Nota sobre Attese de Lucio Fontana, 1963, http://www.amp-nls.org/page/fr/170/le-congrs